Milik ha rilasciato una intervista ai microfoni di Gazzetta. Riportiamo di seguito il virgolettato integrale dell’intervista concessaci da tuttojuve.com
“Cosa mi legava all’Italia? Pizza e pasta! Per come le mangiavo in Polonia, non avendole ancora provate qui, mi sembravano buonissime.
Poi ho visto come si preparano e allora ho capito che erano proprio un altro mondo. Meglio che non dica come le cucinavamo…”. Tra Nord e Sud ci sono gli sfottò come da voi, noi del Sud (è di Tychy, al confine con la Slovacchia; ndr) siamo più caldi, quelli di Varsavia, come Szczesny, sono un po’ più fighetti… Posso dirglielo perché è mio amico…
Sono diventato un po’ come voi, è naturale con tutto il tempo che ho passato qui. Sto mangiando come voi, mi vesto molto meglio. E poi la mentalità: prima ero più fissato, troppo schematico, adesso so prendere le cose con calma”.
Milik, Il bambino Arek com’era?
“Non ero timido, ma sapevo stare al mio posto. La cultura familiare era parecchio diversa, sapevo che se non fossi stato al mio posto qualcosa avrei rischiato, adesso tra genitori e figli c’è tutt’altro dialogo”.
E a scuola?
“Ero tranquillo, facevo quello che dovevo fare, ma l’unico obiettivo che avevo in testa era un altro: andare a giocare a calcio. A scuola puntavo soltanto ad arrivare in fondo. Quando ero lì, pensavo a quando sarei andato ad allenarmi”.
Famiglia a parte, chi l’ha ispirata in questi anni?
“Nel calcio, Thierry Henry e Cristiano Ronaldo. A inizio carriera mi capitava di giocare esterno e così guardavo gli skill di Cr7 su Youtube. Mi ispiravano veramente. Infatti poi andavo al campo e cercavo di imitarlo. E guardavo i suoi addominali, li avrei voluti anch’io, per riuscirci mi mettevo a farli anche alle 11 e mezza di sera… Un altro sportivo che mi ho ammirato è Kobe Bryant, per la sua mentalità”.
Milik, C’è una maglia da piccolo calciatore che non dimentica?
“Era verde. Ma anche arancione. Sai perché non era una sola? Perché le maglie da gara dovevamo comprarcele da soli. Il nostro club, l’accademia di Katowice, per i più piccoli non le aveva. Una volta, a 6 o 7 anni, convinsi gli altri a comprarne simili a quelle dell’Arsenal, rosse con le maniche bianche e le scritte in oro: perché nei Gunners c’era il mio idolo, Thierry Henry”.
Henry e non un polacco?
“È che all’epoca nel mio Paese nessuno giocava all’estero ad alti livelli, non c’era un simbolo che potesse rappresentare un’ispirazione per i giovani. E così noi ragazzini cercavamo di trovarne uno tra Real Madrid, Barcellona, Manchester United, Juve…”.
Il gol indimenticabile segnato da ragazzino?
“Da centrocampo, appena iniziata la partita mi passano la palla, tiro, gol. C’era il vento, ma avrei segnato comunque. Avevo 14 anni”.
Fu quello il giorno in cui capì che avrebbe fatto il calciatore?
“No. Avevo sì un sogno che nel tempo è diventato un obiettivo, ma quando ho capito che avrei voluto fare il calciatore praticamente lo ero già diventato. A 14-16 anni c’era giusto l’ambizione di poter arrivare alla prima serie polacca, anche perché tutti all’accademia continuavano a ripetermi che ero un po’ speciale”.
La delusione più grande del giovane Arek?
“Nell’ultima partita giocata con l’accademia. Stavo per passare al Gornik (avrebbe debuttato in Ekstraklasa, la massima serie, a 17 anni; ndr).
Era una sorta di Final Four, nell’ultima gara dovevamo vincere per ottenere il primo posto. Avanti 3-0 alla fine del primo tempo, abbiamo perso 4-3. Ricordo che nello spogliatoio, poi, piansi”
All’Italia, all’epoca, che cosa la legava?
“Pizza e pasta! Per come le mangiavo in Polonia, non avendole ancora provate qui, mi sembravano buonissime.
Poi ho visto come si preparano e allora ho capito che erano proprio un altro mondo. Meglio che non dica come le cucinavamo…”.
Da diversi anni lavora con un mental coach. C’è un consiglio che lei, sportivo professionista, si sentirebbe di estendere a tutti, sportivi e non?
“Non credo di scoprire niente di nuovo se dico che nella vita ognuno di noi deve avere un obiettivo. Grazie a questo, la motivazione viene da sola. Così si tolgono tutte le distrazioni e si punta su quello. Non vale soltanto per lo sport, vale in qualsiasi ambito”.
Lei il calcio lo vive così intensamente da sognarlo?
“Adesso un po’ meno, anche se è sempre nei miei pensieri. Col tempo, grazie all’esperienza, vedo le cose in modo diverso, prima provavo delle emozioni che poi mi portavano a ripensare per esempio agli errori commessi.
Adesso succede meno, grazie all’età e al lavoro mentale che sto facendo”.
A Sportweek, la sua compagna Agata disse: “Siamo quello che mangiamo”. Quindi Arek che cos’è?
“Agata mi aiuta su tanti aspetti, dal cibo alla cura del corpo”.
Come?
“Dico sempre: lei si occupa da qui a qui (Milik segna dalla punta dei capelli al collo; ndr), al resto ci penso io”.
Il suo beauty case è il più fornito dello spogliatoio?
“Sono a metà classifica… Da ambassador di adidas per la linea beauty Active Skin & Mind ho scoperto tanti prodotti che mi piacciono.
Ho una mia routine, li uso sempre e poi, appunto, ci sono i consigli di Agata. Sono a posto”.
E a tavola lei come l’aiuta?
“I fornelli non li tocco quasi mai, quindi della mia alimentazione si occupa lei, e lo fa nel migliore dei modi. Mi sento bene, quando dormo o quando mi sveglio vedo tanta differenza.
Cambiai il mio regime una decina di anni fa. Avevo un unico grande obiettivo, fare il calciatore. Quindi tutte le distrazioni, comprese quelle del cibo, le tolsi di mezzo”.
Magari dall’Olanda, dove andò all’Ajax, a Napoli, le tentazioni aumentarono…
“Facevo fatica a non cadere in tentazione, mozzarelle, fritti, pizze. Per farcela mi ripetevo: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi, quello che non ti aiuta evitalo”.
Milik, ma gli addominali prima di andare a dormire li fa ancora?
“No, sono diventato più intelligente… Prima di dormire, tutt’al più una tisana”.