Il ricambio generazionale degli allenatori

Si iniziano ad intravedere, nei nuovi volti della panchina, grandi promesse italiane

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Il ricambio generazionale degli allenatori
Thiago Motta coach of Bologna, during the match serieA italian championship Napoli vs Bologna final result, Napoli 3, Bologna 2,match played at the Diego Armando Maradona Stadium.

Il ricambio generazionale degli allenatori. “Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”. E anche, mi permetto: “di allenatori”. Ritoccare l’epigrafe del Palazzo della Civiltà Italiana a favore di una lunga serie di maestri della panchina non sarebbe un sacrilegio. Già nel 1940, all’inaugurazione del “Colosseo quadrato”, lo eravamo: c’era Vittorio Pozzo (ancora oggi unico cittì a vincere due Mondiali consecutivi), c’era Carlo Carcano (leader della Juve degli anni ’30), oltre che l’indimenticato Arpad Weisz, ungherese che forse sarebbe diventato italiano – d’adozione lo era già – se non fosse stato destinato alla tragica infamità dell’olocausto. Siamo sempre stati il popolo e la terra nei quali questo mestiere ha trovato maggiore fioritura. Non è per niente una casualità: se ogni italiano occupa una buona fetta del suo tempo, spesso al lunedì, nel disquisire su tattica, cambi e dir si voglia con amici e colleghi, è normale che una piccola percentuale di questi trasformi ciò nella propria vita lavorativa. È un riflesso condizionato del costume italiano. Un costume spinto, e non poco, dalla stampa sportiva che in questo paese si è ritagliata uno spazio autorevole nella “letteratura” del paese – dagli anni ‘50 in poi. Il calcio fa parte del racconto letterario, l’allenatore è un Orlando contemporaneo, spesso errante tra indicazioni tattiche, lavoro fisico e – ahimè ormai raramente – purezza tecnica (saper lavorare il pallone). In tale scenario è nata ed ha prosperato la grande genìa degli allenatori italiani: Rocco, Maestrelli, Bearzot, Trapattoni, Sacchi, Capello, Lippi. Ora parliamo anche dei grandi di oggi.

Il ricambio generazionale degli allenatori, i grandi in difficoltà

Dopo i grandi maestri del ‘900 abbiamo avuto la continuazione ideale dell’arte in alcuni dei migliori interpreti di questo secolo. Anche se oggi, alcuni di questi, vivono una stagione di difficoltà. Iniziamo da Carletto Ancelotti. Oggi il suo Real è dietro il Barça di Xavi di 8 punti: impossibile solo pensarlo, a settembre. E invece i blaugrana hanno punito i blancos anche in finale di Supercoppa, nettamente. La Champions porta al Liverpool, decimo in Premier (!), per il più classico dei regolamenti di conti. Comunque vada, Carlo può impreziosire la stagione battendo oggi l’Al-Hilal e portando a casa il Mondiale per Club. Spostiamoci in Inghilterra, da Conte. Nonostante il misero punto di distacco dalla Champions l’insofferenza dell’allenatore è palese: gli chiedono il mondo e lui ripete di avere una squadra da sesto posto. Da Paratici si aspettava maggiore collaborazione, molti scommettono che a fine anno lascerà Londra. Intanto l’esame Champions (vs Milan) è una tagliola metaforica per saggiare la sua attitudine europea. In Italia si sta parlando molto di Pioli: grande ci è diventato pochi mesi fa e oggi è nel caos totale, tra maldicenze, rinnovi scottanti e filotto negativo interrotto ma ancora non dimenticato. Peggio sta Allegri, con quindici punti in meno, alla ricerca di una rimonta impossibile. La serie positiva di vittorie (risicate) ha nascosto i vizi di fondo dell’allegrismo, assai visibili nel tracollo contro il Napoli: atteggiamento attendista che ha permesso ai partenopei il dominio, giocatori fuori posizione, anacronismo rispetto ai cinque cambi. Comunque, dopo la batosta, Max ha ristabilito un ordine parziale, dandoci conferma della sua bontà di gestore. Anche Sarri sembra non riuscire a spiccare il volo: la sua Lazio ha lasciato per strada qualche punto di troppo, in ottica Champions, proprio mentre arrivano le partite ogni tre giorni che Maurizio poco digerisce. Di fianco a questi sorride sornione Luciano, dal suo trono inattaccabile. Solo lui non deve temere l’avanzata delle nuove leve che nominiamo ora.

Il ricambio generazionale degli allenatori, i nuovi scalpitanti

Lo scetticismo intorno a Thiago Motta c’è sempre stato, dai primi giorni di Genova alla salvezza con lo Spezia inibito al mercato. Interprete di un gioco propositivo, ha convinto il Bologna a investirlo della pesantissima eredità di Sinisa: la musica sotto i portici è soave come mai, i felsinei trottano e con il nuovo allenatore hanno perso solo con Inter, Atalanta e Roma. Se Thiago trova equilibrio – e talvolta si accontenta del pareggio – può fare il salto di qualità e guidare un club importante. Rimaniamo in Emilia, sponda Sassuolo. Alessio Dionisi è stato una sorpresa lo scorso anno, mentre attualmente i neroverdi stentano. Pinamonti non è Scamacca, Laurientè non è Raspadori. Ma cinquanta punti al primo anno in Serie A non sono un caso: studi bene il metodo De Zerbi e costruisca lui nuovi campioncini. Se diviene anche un “formatore”, può considerarsi un allenatore completo. A proposito di De Zerbi, il suo metodo ha attecchito perfettamente oltremanica. Raccolta l’eredità del “mago” Potter, ci ha messo poche settimane a superarlo in classifica. Sta svolgendo ottimamente il suo italian job portando aggressività e trasporto sulla tranquilla costa meridionale d’Inghilterra. La Champions è un sogno, forse lo rimarrà, ma guardare da vicino Conte in classifica (con rose antinomiche) è il chiaro segno della sua crescita sotto tutti i fattori. Per ultimo lascio Palladino. Quello che si sta costruendo a Monza è da esempio per tutte le nostre piccole società. Un tecnico giovane, pronto sotto il profilo tattico, capace in una settimana di rivoltare come un calzino l’impostazione di squadra. Ha vinto la sua prima partita contro la Juve. Non pago, l’ha atterrata anche al ritorno. Il Monza è imbattuto in Serie A da novembre. Cari italiani, c’è ancora tanta abbondanza nel futuro delle nostre panchine.