Mondiali l’Argentina sul tetto del Mondo. Potremmo evitare il racconto dei primi ottanta minuti. Il copione scritto che si profilava dopo le prime battute era fin troppo semplice. A dieci minuti dalla fine il calcio si è fatto epica: quella a cui abbiamo appena assistito è nientemeno che la Partita del Secolo. Parallelismi come quello tra futuro – Mbappé – e storia – Messi – lasciano il tempo che trovano. Oggi abbiamo visto come la prestazione sportiva può incarnare più che un semplice spirito atletico entrando nell’inumano. Quello che Re Leo ha fatto, a 35 anni, è la più indelebile parentesi del calcio recente. Stasera non si guardano i numeri, si guardano le foto. La faccia di un popolo, di Dio e di Diego, è stata quella di Leo. Prima la vittoria scritta, la coppa ad uno spiffero dai polpastrelli; poi l’incubo, il fiore che rischiava di non fruttare. Perché dall’altro lato la genetica sembra avere donato lo scompaginatore di schemi per eccellenza alla Francia, quel Kylian che ha cercato, oggi davvero in autonomia, di vincere un Mondiale. E alla fine torna a casa con il pallone ma lascia lì il trofeo. Il globo è nelle mani del ragazzo di Rosario che, come dopo il più classico confronto cavalleresco, spodesta il campione uscente e si arrovella beatamente nella gloria. Leo assurge a Diego negando a Mbappè l’elevazione a Pelé: la dolce e crudele equazione non scritta che va all’almanacco. Leo vincente 36 anni dopo Diego può finalmente scrollarsi di dosso il dovere Mondiale, Kylian ci ha fatto vedere una tripletta di reminiscenze antiche, ma la statistica immaginifica del brasiliano rimane intatta. È stato un Mondiale da Lionel al quadrato: Scaloni è il committente, Leo è il Michelangelo del nostro millennio, sotto l’astro benedetto di Diego Armando.
Mondiali l’Argentina sul tetto del Mondo, la partita
Suonano gli inni, si passa ai convenevoli e poi l’arbitro fischia. Solo che manca la Francia. Quella che è scesa in campo nel primo tempo è la fotografia perfetta della spedizione Bleus: brava ma non si applica e anzi, talvolta pecca di presunzione. L’Albiceleste parte a razzo e gira il pallone con meccanismi oliati, semplici ed efficaci. Dunque il Fideo, jolly impazzito di questa finale, penetra in area e conquista un rigore: a Leo non tremano le gambe, Lloris è spiazzato. L’apatia francese non si spezza, le maglie dei galletti sono sempre più larghe. La capitolazione sembra arrivare al 36’: un contropiede paradisiaco orchestrato da Messi, accompagnato da Alvarez e rifinito da MacAllister manda in rete Di Maria. Francia in bambola dopo un tempo e Giroud fatto accomodare in panca, chissà con quali colpe. Difatti che non fosse il rossonero il problema lo si capisce subito: buona metà della seconda frazione è anche peggiore della prima. Poi la luce si accende al ritmo del sangue di Kylian. Prima trasforma un rigore intuito da Martinez, ma troppo perfetto; poi succede l’incredibile quando Messi perde il pallone che origina il secondo gol francese. Il ribaltamento di fronte è completato da un triangolo volante Thuram-Mbappè: Kylian sforbicia, quasi da terra, sfondando le mani di Martinez e insaccando sul secondo palo. C’è stato il rischio che l’apoteosi sportiva di Leo scivolasse verso un destino beffardo, a tratti terribile: se l’Albiceleste fosse uscita sconfitta la ferita parziale tra lui e il popolo argentino sarebbe rimasta tale, negandogli l’accostamento a Diego. Molti gli avrebbero rinfacciato l’incompletezza, se quell’episodio fosse risultato decisivo. Invece l’Argentina resiste, allo sbando ma unita nella perseveranza, fino al supplementare, preceduto da un brivido: Martinez deve abbassarsi e murare un bolide a botta sicura di Kolo Muani. Ha rischiato di perderla in venti minuti, la squadra che aveva dominato i primi ottanta. Ma qualche istante d’aria fa bene ai muscoli latini, rinvigoriti dall’ingresso di Lautaro che rileva un Alvarez sfinito. Il Toro diventa subito un catalizzatore di palloni: fallisce un paio di chance non facili ma mette l’anima su ogni contrasto. Poi, all’alba del secondo supplementare, la giocata di fino per dare di sponda, costruire un uno-due con Fernandez per vedersi Lloris parare ma non poter fare nulla sul tiro di Leo che oltrepassa la linea. Il pallone che esce dalla rete per tornare in campo, ribattuto da un difensore Bleus, dà la cifra dell’ineluttabilità del momento: niente e nessuno, a quel punto, si sarebbero messi tra Leo e la coppa. Neanche Mbappè, che va in tripletta siglando il penalty che manda la sfida ai rigori, dopo il pallone toccato dal braccio largo di Montiel. L’ultima peripezia del match non fa altro che innalzare la solennità, rendere leggenda quello che si sta vivendo. Entra Dybala per la lotteria, cavalcando l’onda che si fa dolce, perché sono i francesi a cadere sotto un rivolo d’acqua. Leo e Kylian sono perfetti. Poi l’Albiceleste è imperterrita, les Bleus sono tremebondi. Coman e Tchouameni sbagliano, Montiel mette il quarto e risparmia a Lautaro la fatica. È finita davvero: Leo e l’Argentina sono Campioni del Mondo. Raramente i muscoli si erano fusi allo spirito in tale maniera. Come Musashi definiva la sua la “Via dell’Arte Marziale”, quella dell’Albiceleste di Leo, da oggi, è la “Via dell’Arte del futbol”.
Mondiali l’Argentina sul tetto del Mondo, la festa
Il Lusail Stadium cromato di bianco e azzurro esplode, Buenos Aires diventa un fiume di persone, Napoli vive una gioia sincera, Rosario si fa l’ombelico del mondo. Il tutto mentre Leo – dopo aver provato la multiformità e l’eccezionalità delle emozioni della psiche umana – scoppia in un pianto vero. Dalla sicurezza al baratro, poi quell’esultanza al supplementare che cancella le sue foto a testa bassa alle uscite di scena in Champions: è un Leo con sguardo cannibalesco, intriso al tempo stesso di determinazione e sfinimento. E infatti dopo che Montiel la insacca cade sulle ginocchia e si lascia a se stesso. Poi abbraccia i compagni uno ad uno: da Lautaro a Scaloni a Martinez. La coppa solo sfiorata nel 2014 è scalzata dal trionfo meraviglioso e appagante: alla consegna del Pallone d’Oro del Mondiale non riesce a rinunciare ad un bacio e ad una carezza. La luce riflessa della coppa nei suoi occhi luccica come miele su un cucchiaio. Finalmente arriva la consegna delle medaglie, con i due Lionel che arrivano per ultimi. Scaloni ha il viso segnato, invecchiato, pare un reduce delle Malvine. Leo, vestito – non si sa bene perché – della larga toga nera dall’emiro qatariota, sembra un bambino con i vestiti del fratello maggiore. Avanza saltellando verso i compagni per poi alzare le braccia al cielo: ha il mondo in testa, anche se nei fatti è ai suoi piedi. L’immagine è commovente: al contrario di tanti capitani della storia Leo è minuto e la coppa tra le sue braccia pare enorme. Il bambino ha realizzato il suo sogno. Grazie Leo per aver arricchito l’infinito romanzo del calcio con questa pagina dorata. Il mio segnalibro non si muoverà da questa.