La crescita di Dimarco. Quando da bambini compravamo le figurine e aprivamo l’album Panini, più categorie di calciatori ci venivano agli occhi. Non per i ruoli o la loro titolarità, ma in base alla tabella carriera posta ai piedi della figurina di turno. Sotto Zanetti, Totti, Maldini, Del Piero un piccolo rettangolo, a rappresentare le bandiere; alla base di altre foto il rettangolo ruotava estendendosi in lunghezza, a delineare il profilo di quei giocatori sempre in movimento, ad esempio Brienza o Mascara, attaccanti da Giro d’Italia; sotto altre ancora ecco gli atleti che hanno girato in prestito un bel pezzo di vita, calciatori che tornano a casa e hanno sempre pronta la valigia per ripartire, poi rientrati in pianta stabile all’ovile. S’è c’è un prototipo dell’atleta con il bagaglio pronto per andare a fare esperienza, speranzoso un giorno di tornare a casa sua, quello è Federico Dimarco. Per dirla con Jovanotti, l’esterno dell’Inter “è una valigia e gira di stazione in stazione”. O meglio, era. Da Ascoli a Verona, passando per Parma e la Svizzera, il viaggio del nerazzurro ha toccato molte tappe, tutte finalizzate al “ritorno in patria”. Prima la B, poi l’esperienza all’estero caratterizzata dagli infortuni, in seguito l’assaggio di A in quel di Parma – l’abbiamo conosciuto proprio per un gol all’Inter, un collo sinistro da distanza siderale che condannava la squadra di Spalletti – cui ha seguito la maturazione a Verona e la definitiva esplosione nel biscione. Il bilancio lo traccia lui stesso con un’intervista alla Gazzetta, in occasione dei suoi 25 anni, festeggiati con la doppietta al Bologna. “Devi fare i tuoi step di crescita, penso di averli fatti e di essere tornato all’Inter, per restare, al momento giusto … se oggi sono qui lo devo a tutti i tecnici che ho avuto, ma in particolare uno” dice Federico, riferendosi a Juric e alla parentesi scaligera: “Mi ha formato al 100% in tutto, soprattutto nella testa, aiutandomi a restare sempre concentrato”. Ed è servito eccome, lo si può evincere dalla risposta che fornisce circa la pressione di giocare con i colori che ama: “A pesare sono altre cose. Il fatto di scendere in campo con lo stemma dell’inter sul cuore è semplicemente la cosa più bella del mondo. Né più, né meno.”
La crescita di Dimarco, esterno o quinto?
Roberto Carlos l’ha definito un vero talento, investitura che pesa giusto un po’. Difficile però capire davvero di fronte a che atleta siamo, per arrivarci dobbiamo aprire una parentesi tecnico-tattica: il ragazzo non ha lunghe leve, ma in accelerazione si accende; è molto dotato nel lavorare il pallone sulla linea laterale, sebbene al 99% usi il sinistro; proprio questa caratteristica gli permette una buona mole di cross dal fondo, peccando di contro nel rientrare sul piede debole e legare il gioco convergendo sulle punte; in fase difensiva è spesso approssimativo e subisce gli avversari molto fisici, mentre in fase offensiva è l’unico vero dribblatore dell’Inter grazie proprio alla sua compattezza e agilità; possiede un piede sinistro tra i più raffinanti nel nostro campionato, ma spesso si intestardisce dimenticandosi di avere il destro, quasi “alla Bernardeschi”. Dinanzi a queste specifiche non lo definirei né terzino né quinto, bensì un esterno offensivo “prestato” al 3-5-2 grazie alla cura Juric. Lui si definisce così: “A Verona ho fatto prima il quinto poi il terzo in difesa, Ero già abituato ad alternare, stavo spesso dietro ma mi sento un esterno di fascia.” Ancora il croato è fondamentale per la parabola di Federico all’insegna della polifunzionalità, che sarà utilissima in chiave azzurra. Purtroppo per la Nazionale dobbiamo attendere, il ragazzo ha tutto il tempo per tuffarsi ancora più in profondità nell’universo Inter, dove sta diventando un leader, come evidenziano queste parole dopo la doppietta di domenica: “Il regalo è di tutta la squadra perché abbiamo vinto insieme ed è ciò che conta”. Sono nette anche le parole circa l’andamento double face dei nerazzurri: “Giuste le critiche per le 5 sconfitte in A, ma le altalene le hanno tutti: siamo tutti lì, non è solo e sempre l’Inter in crisi … si può sempre recuperare, daremo il 100% per arrivare più in alto possibile”. Al contrario dei quotidiani italiani, sull’accoppiamento con il Porto è cauto ma determinato: “Non esiste la più facile, forse era la migliore da pescare, ma l’affronteremo come fosse il City o il Chelsea”. Parole ruggenti che sembrano provenire dalla tigre che porta tatuata sulla schiena.
La crescita di Dimarco, il legame con l’Inter e Milano
Rimanendo in tema tatuaggi, sulla pelle di Dimarco è impressa la croce rossa su campo bianco simbolo di Milano. Il ragazzo, cresciuto tra Calvairate e Porta Romana, ha un legame con il nerazzurro e la milanesità insito e inscindibile. Non a caso lo scorso 22 maggio la sua espressione più di altre rappresentava il dolore: inginocchiato, quasi a prostrarsi alla Curva Nord dove tifava da bambino, in lacrime per lo scudetto andato ai cugini. Infatti dimostra una certa stizza ad ammettere che la sconfitta con i rossoneri nell’ultimo derby è stata giusta (“difficile per me dirlo … è stata meritata”); con temperamento opposto risponde alla domanda fatidica su Juve-Inter: “L’avevamo in mano, non ci hanno certo dominato. Ci prendiamo le nostre responsabilità perché abbiamo perso per colpa nostra”. Parole che suonano ancora più chiare se dette da un ragazzo che è cresciuto a San Siro: “Neanche ricordo la prima a San Siro, avrò avuto tre anni, da lì e diventata una droga in senso buono … l’ultimo anno in cui ho frequentato è stato quello del triplete”. A Madrid non poté andare per degli impegni calcistici, ma rovescia il rimpianto trasformandolo nella più rosea possibilità: “Facile dire che, un giorno, una finale di Champions vorrei giocarla io con questa maglia”. Ambizioni nette e chissà se un giorno raggiungibili. Affermazioni decise di un ragazzo che sa di essere diventato collante dello spogliatoio: “Ho legato molto con tutti … in Lukaku ho fiducia, chi ha avuto così tanta voglia di tornare, ha molto da dimostrare ai compagni e alla gente … con Skriniar parlo di tutto tranne che del contratto, deve stare tranquillo perché è fortissimo, sa quanto è decisivo per noi”. Lo spronare i compagni lo caratterizza come portatore sano, e mai ingombrante, di quella leadership che ha rincorso e finalmente trovato con la maglia nerazzurra. D’altronde lui stesso al bambino seduto in Curva Nord direbbe: “Hai compiuto il tuo sogno chiamato Inter, Federico”. Un legame che è una bella – e insolita – favola nel calcio moderno.