Nel mondo dello sport, la condotta mobbizzante che si può rilevare è quella del mobbing verticale. Qui possono rientrare tutte quelle condotte poste in essere dal datore di lavoro, nello specifico dal club, dal presidente, da un dirigente, dal direttore sportivo e anche dall’allenatore.
Bisogna però fare attenzione a non confondere condotte mobbizzanti con inadempimenti contrattuali. Infatti, nel momento in cui venga a mancare una condotta vessatoria, non si parlerà più di mobbing, ma di inadempimento contrattuale.
Un esempio di mobbing nel mondo dello sport potrebbe essere quello di impedire all’atleta di partecipare agli allenamenti con i propri compagni. Questa situazione, infatti, potrebbe avere conseguenze per l’atleta, sia a livello psicologico ma anche a livello tecnico ed economico. Questi, infatti, non potendo allenarsi ai suoi livelli rischierebbe di subire una involuzione tecnica, nonché un notevole danno economico.
Il mobbing nello sport: la lesione dell’immagine dello sportivo professionista.
Nello sport moderno, che assomiglia sempre di più ad un grande show, un profilo che va tenuto in considerazione è quello dell’immagine di cui gode l’atleta. Lo sportivo professionista di oggi, infatti, sfrutta sempre di più la sua immagine per incrementare il suo guadagno.
Con il passare del tempo, forte anche della sua crescita a livello economico e di interesse, il mondo dello sport si è più volte scontrato con la giustizia ordinaria.
Gli atleti, con l’avvento del professionismo e in particolare con il riconoscimento di una controprestazione economica alla prestazione sportiva dell’atleta, sono diventati a tutti gli effetti dei lavoratori (celebre in questo senso fu la sentenza Bosman emessa nel 1995 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea) e dunque soggetti alle tutele previste in tema di diritto del lavoro.
Il mobbing nello sport: i casi Zanin e Pandev.
Diego Zanin, giocatore dell’A.S. Montichiari, ritenne, non essendosi ridotto, come richiesto dalla società di appartenenza, l’ingaggio, di aver subito da questa una condotta vessatoria. In una sua dichiarazione Zanin disse che la società inizialmente gli chiese di rescindere il contratto e di trovarsi una nuova squadra. Alla risposta negativa il giocatore si vide costretto ad allenarsi da solo e a subire minacce ed aggressioni. A causa del vincolo imposto ai tesserati dalla clausola compromissoria, il giocatore decise di rivolgersi alla commissione disciplinare della F.I.G.C. Questa, nel maggio del 2004, si pronunciò condannando al pagamento di una ammenda la società, il team manager e l’allenatore dell’A.S. Montichiari poiché la loro condotta rientrava pienamente in una condotta mobbizzante.
Se il caso Zanin fu uno dei primi casi di mobbing nello sport, il caso Pandev fu il caso di mobbing più famoso ed eclatante.
Estate 2009, il macedone Goran Pandev rifiutò di rinnovare il contratto in scadenza giugno 2010 con la S.S. Lazio. Il calciatore si ritrovò, così, a vivere da separato in casa i primi mesi della stagione sportiva 2009/2010. Egli, infatti, non si poteva allenare con il resto della rosa della prima squadra e veniva, così, relegato ad allenarsi con altri giocatori ritenuti “indesiderati”.
Nel settembre 2009, appellandosi agli artt. 7.1 e 7.2 dell’allora Accordo Collettivo, Pandev decise di chiedere al Collegio Arbitrale della Lega Calcio la rescissione del suo contratto con la Lazio con procedimento d’urgenza. In caso di vittoria il macedone poteva diventare un giocatore svincolato e libero di accasarsi, nella successiva finestra di mercato di gennaio, a parametro zero presso il miglior offerente, in caso contrario sarebbe stato costretto a restare alla Lazio per latri sei mesi (fino, cioè, alla scadenza del contratto).
Il 23 dicembre 2009, il Collegio Arbitrale della Lega Calcio si pronunciò a favore di Pandev.
Significative furono le motivazioni poste alla base del Lodo Pandev. Il Collegio Arbitrale ritenne, infatti, che la situazione del macedone era dovuta al fatto che “non avendo trovato un accordo sul rinnovo, la Lazio, per spingere il giocatore ad accettare le sue condizioni, lo ha accantonato ed escluso dalla prima squadra, relegandolo insieme ad altri giocatori ritenuti indesiderati, ad allenamenti separati” e che la sua esclusione non poteva essere giustificata da una scelta tecnica fatta dall’allora allenatore Ballardini.
La mancata possibilità di poter esser valutato dall’allenatore in vista di una convocazione per la partita, dovuta all’impossibilità di partecipare agli allenamenti della prima squadra venne dunque valutata dal Collegio come una condotta mobbizzante posta in essere da parte della società laziale ai danni del macedone.